LA BOTTEGA di ODO TINTERI WEB

Bisticciando col tempo

 

Bisticciando col tempo

Sono nato per disegnare storie che scappano dalle mani. Le inseguo a volte, per comprenderne il fine. Diventano miti nascosti dietro sogni senza ragione. Mi spaventano e mi avvincono. Vorrei falciarli alla base, ma li lascio crescere fino a sentirmi vigliaccamente legato alla fune del racconto.

 La presentazione del libro di Gavino Sanna, che parla di Porto Torres, mi ha indotto a pensare alla mia infanzia. Dico subito che la mia situazione di vita era molto diversa dalla sua. Lui, era figlio di benestanti, i così detti, “signori”. Io figlio di poveri, molto poveri. Parlo dei primi anni della mia vita. Mi sembra un film in bianco e nero. Il sole spaccava le pietre, allora. Le patelle sugli scogli di Balai lontana erano il cibo o parte di esso. C’erano i ricci, le lumache da stoppia e quando pioveva, i lumaconi. Andavo a funghi in autunno. Funghi piatti larghi e grigi.  Con il fuoco del carbone si arrostivano. La casa che ricordo era di fronte alla Caserma. Si saliva una scala malconcia e si entrava in una camera unica. Non c’era la cucina. Non un angolo, se pur piccolo, dove fare da mangiare. Si accendeva il fuoco per strada e se si aveva qualcosa da mettere sul fuoco, si metteva.  Non c’era un gabinetto. Di notte c’era una conca che si svuotava alla mattina in una fogna maleodorante di fronte alla casa. Durante la giornata c’erano i prati vicini. E li, si poteva scoprire che cosa avevano mangiato chi li frequentava. L’acqua si prendeva alla fontana della piazza, a turno. Era compito mio cercare di riempire un recipiente e qualche bottiglia. Mio padre faceva, ciò che trovava da fare. Era appena tornato da militare in guerra.  Il suo lavoro era il pescatore. Il bambino che ero, aveva occhi per vedere e sentire un mondo di miseria. Le giornate erano lunghissime per costruire sogni di evasione. Speravo di diventare un poco grande per scappare. Non sapevo dove. Mi aggrappavo alle nuvole sperando che con braccia forti mi portassero via.  Quando trovavo qualche statuetta rotta, ne utilizzavo il gesso o col carbone facile da usare. I miei fogli erano il marciapiede malconcio. La fantasia non ha bisogno di grandi mezzi. Ero già grande a sei anni. Mi piaceva raccontare con i segni e quando usavo le parole raccontavo di galline che facevano 18 uova al giorno. O di murene che salendo sulla spiaggia della Marinella si facevano prendere docili. Raccontavo di murene perché a mia madre piacevano fritte. Quando si trovava l’olio per friggere erano una prelibatezza. Nel mese d’agosto, alla fine, andavo con mio cugino, qualche anno più grande, a pescare i polpetti da conservare per i regali importanti. La nostra zona era lo Scoglio Lungo. La vita da poveri, come me, era una lotta che si combatteva a mani nude. Non c’era da strapparsi le vesti. Le mani con artigli servivano per graffiare il tempo. Non amavo giocare.  Non mi piacevano i giochi violenti. Mi sembravano tutti violenti. Ricordo che il primo giorno di scuola fu per me una lezione terribile. Siccome sapevo già leggere e scrivere, un poco, fui sistemato nell’ultimo banco per non disturbare chi cominciava con le aste. Avevo imparato con l’aiuto di una ragazza che aveva già finito la quarta elementare e che frequentava casa nostra, o meglio le scale di casa. Il mio sogno era di potere leggere i giornali e soprattutto i libri che vedevo in sacrestia. Sapevo le tabelline a memoria. Mi prestavo ad esami continui, sorprendendo i grandi. La qualcosa non disponeva a mio vantaggio nei confronti dei bambini del quartiere. Porto Torres era allora, dopo la guerra, una conca di miseria indescrivibile, nei miei ricordi. C’erano anche i benestanti, ma noi eravamo i poveri. La chiesa di San Gavino era un miracolo. Il parroco mi permetteva di sfogliare i libri importanti. Le figure in bianco e nero mi rubavano gli occhi. Il mondo era lontano ma c’era. La scogliera mi diceva che al di là dell’orizzonte c’erano città, dove tutti lavoravano e diventavano ricchi.

Quando si cercano le radici. Si muove la terra. Mi accorgo che sto usando un pico tagliente. Cerco le radici ma curo che l’albero stia in piedi. Non voglio sciupare le sue foglie sempre verdi, qualunque sia il tempo. Il mio albero è una quercia frondosa ma potrebbe essere anche un ginepro che cerca terra per le radici, per difendersi dal vento di maestro che soffia forte, da queste parti. Gli anni passano, forse è meglio non contarli. Corrono, scappano… chi se ne frega. Importante è che non pesino…troppo. Sono partito ricordando il mio paese natale. Ho parlato di me senza intenzione di farlo. Quando parlo di me, solitamente, invento.  Quando invece credo di inventare, parlo di me. Confesso, che ancora oggi, quando guardo le nuvole che corrono in cielo spero che allunghino il braccio, anche se non ho nessuna intenzione di scappare. Ma l’istinto……

 Bisticciando col tempo

Sono nato per disegnare storie che scappano dalle mani. Le inseguo a volte, per comprenderne il fine. Diventano miti nascosti dietro sogni senza ragione. Mi spaventano e mi avvincono. Vorrei falciarli alla base, ma li lascio crescere fino a sentirmi vigliaccamente legato alla fune del racconto.

 La presentazione del libro di Gavino Sanna, che parla di Porto Torres, mi ha indotto a pensare alla mia infanzia. Dico subito che la mia situazione di vita era molto diversa dalla sua. Lui, era figlio di benestanti, i così detti, “signori”. Io figlio di poveri, molto poveri. Parlo dei primi anni della mia vita. Mi sembra un film in bianco e nero. Il sole spaccava le pietre, allora. Le patelle sugli scogli di Balai lontana erano il cibo o parte di esso. C’erano i ricci, le lumache da stoppia e quando pioveva, i lumaconi. Andavo a funghi in autunno. Funghi piatti larghi e grigi.  Con il fuoco del carbone si arrostivano. La casa che ricordo era di fronte alla Caserma. Si saliva una scala malconcia e si entrava in una camera unica. Non c’era la cucina. Non un angolo, se pur piccolo, dove fare da mangiare. Si accendeva il fuoco per strada e se si aveva qualcosa da mettere sul fuoco, si metteva.  Non c’era un gabinetto. Di notte c’era una conca che si svuotava alla mattina in una fogna maleodorante di fronte alla casa. Durante la giornata c’erano i prati vicini. E li, si poteva scoprire che cosa avevano mangiato chi li frequentava. L’acqua si prendeva alla fontana della piazza, a turno. Era compito mio cercare di riempire un recipiente e qualche bottiglia. Mio padre faceva, ciò che trovava da fare. Era appena tornato da militare in guerra.  Il suo lavoro era il pescatore. Il bambino che ero, aveva occhi per vedere e sentire un mondo di miseria. Le giornate erano lunghissime per costruire sogni di evasione. Speravo di diventare un poco grande per scappare. Non sapevo dove. Mi aggrappavo alle nuvole sperando che con braccia forti mi portassero via.  Quando trovavo qualche statuetta rotta, ne utilizzavo il gesso o col carbone facile da usare. I miei fogli erano il marciapiede malconcio. La fantasia non ha bisogno di grandi mezzi. Ero già grande a sei anni. Mi piaceva raccontare con i segni e quando usavo le parole raccontavo di galline che facevano 18 uova al giorno. O di murene che salendo sulla spiaggia della Marinella si facevano prendere docili. Raccontavo di murene perché a mia madre piacevano fritte. Quando si trovava l’olio per friggere erano una prelibatezza. Nel mese d’agosto, alla fine, andavo con mio cugino, qualche anno più grande, a pescare i polpetti da conservare per i regali importanti. La nostra zona era lo Scoglio Lungo. La vita da poveri, come me, era una lotta che si combatteva a mani nude. Non c’era da strapparsi le vesti. Le mani con artigli servivano per graffiare il tempo. Non amavo giocare.  Non mi piacevano i giochi violenti. Mi sembravano tutti violenti. Ricordo che il primo giorno di scuola fu per me una lezione terribile. Siccome sapevo già leggere e scrivere, un poco, fui sistemato nell’ultimo banco per non disturbare chi cominciava con le aste. Avevo imparato con l’aiuto di una ragazza che aveva già finito la quarta elementare e che frequentava casa nostra, o meglio le scale di casa. Il mio sogno era di potere leggere i giornali e soprattutto i libri che vedevo in sacrestia. Sapevo le tabelline a memoria. Mi prestavo ad esami continui, sorprendendo i grandi. La qualcosa non disponeva a mio vantaggio nei confronti dei bambini del quartiere. Porto Torres era allora, dopo la guerra, una conca di miseria indescrivibile, nei miei ricordi. C’erano anche i benestanti, ma noi eravamo i poveri. La chiesa di San Gavino era un miracolo. Il parroco mi permetteva di sfogliare i libri importanti. Le figure in bianco e nero mi rubavano gli occhi. Il mondo era lontano ma c’era. La scogliera mi diceva che al di là dell’orizzonte c’erano città, dove tutti lavoravano e diventavano ricchi.

Quando si cercano le radici. Si muove la terra. Mi accorgo che sto usando un pico tagliente. Cerco le radici ma curo che l’albero stia in piedi. Non voglio sciupare le sue foglie sempre verdi, qualunque sia il tempo. Il mio albero è una quercia frondosa ma potrebbe essere anche un ginepro che cerca terra per le radici, per difendersi dal vento di maestro che soffia forte, da queste parti. Gli anni passano, forse è meglio non contarli. Corrono, scappano… chi se ne frega. Importante è che non pesino…troppo. Sono partito ricordando il mio paese natale. Ho parlato di me senza intenzione di farlo. Quando parlo di me, solitamente, invento.  Quando invece credo di inventare, parlo di me. Confesso, che ancora oggi, quando guardo le nuvole che corrono in cielo spero che allunghino il braccio, anche se non ho nessuna intenzione di scappare. Ma l’istinto……

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